Il primo anime da Oscar

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Tre persone, una Audi, un tunnel. Così un ormai già anziano Hayao Miyazaki presentava al grande pubblico l’ultimo sforzo suo e dello Studio Ghibli. Un paio di anni prima aveva annunciato il ritiro dalla scena, salvo poi ritornare sui suoi passi a causa dell’inaspettata morte di Yoshifumi Kondo, futuro erede al trono. La ricca cronologia di simili annunci mai rispettati ha però provato che quella non fu la sola ed unica motivazione dietro la scelta: Miyazaki proprio non riesce a fermare gli ingranaggi che ha in testa, e finché il suo corpo avrà le energie necessarie a star loro dietro allora la verde tranquillità della periferia sarà soltanto un probabile scenario attorno al quale costruire l’ennesimo racconto.

Tre persone, una Audi e un tunnel che collega il reale al sovrannaturale, e viceversa. Miyazaki questi due li ha sempre mescolati come soltanto lui sa fare, con quell’inconfondibile modo di fare cinema. Talvolta il punto di contatto è dolce e positivo, talvolta traumatico o smarrente, ma a prescindere il magico collidere di queste due dimensioni, così distanti e diverse tra loro ma al contempo così vicine e sovrapponibili, genera esattamente quell’intreccio tematico e iconografico con cui il regista ha incantato generazioni su generazioni, e che è parte inseparabile del fascino de La Città Incantata.

Due adulti, una bambina, una Audi, un tunnel. Perché in fin dei conti la sua filmografia ce l’ha ripetuto fino allo sfinimento: crescendo si perde inevitabilmente qualcosa, e non si tratta solo della chiave d’accesso al sovrannaturale. È un qualcosa di molto più complesso e profondo, che ha a che vedere con i temi cardine delle storie di Nonno Ghibli, come la natura umana e la sua tendenza a corrompersi, il progresso e la tecnologia, la spiritualità e la natura. O forse sarebbe meglio dire che sono i bambini ad avere un qualcosa in più? Quell’intensa luce negli occhi e quell’entusiastica prospettiva del mondo, ma anche la sensibilità necessaria a discernere il bene dal male e il coraggio di affrontarlo.

Tre persone, una Audi A4 1.8T, un tunnel. E non sarebbe un film di Miyazaki se non ci fosse un qualche riferimento ad un veicolo realmente esistente. La passione nutrita dal regista nei loro confronti è ben nota, e non è un caso che tra i suoi maestri ci sia proprio Yasuo Otsuka. In questo caso la passione si unisce ad un’esigenza autoriale, e per questo narrativa: quella della denuncia sociale. L’Audi, simbolo di ricchezza, incarna la tendenza al consumismo e all’eccesso tanto quanto l’iconica scena al ristorante ad inizio film. Per entrare nel mondo del lavoro alle terme, Chihiro perde il suo nome, simbolo della sua identità.

Tre persone, una Audi, un tunnel, un Oscar. Quello che avrebbe meritato di vincere già prima e che poi alla fine non ha voluto ritirare come segno di protesta per l’invasione statunitense dell’Iraq, ma anche quello che forse più gli si addice. La Città Incantata non sarà forse il più poetico dei film di Miyazaki, né tanto meno il più profondo o il più spensierato, ma è piuttosto un po’ di tutto questo: la più bilanciata sintesi di tutte queste caratteristiche. Picco di creatività assoluto del regista, è per i più piccoli un avvincente e fantastica epopea, una storia di maturazione e una critica al consumismo per gli adulti, un pezzo fondamentale della storia degli anime e un’immancabile visione per qualsiasi appassionato di cinema.

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