Un articolo più distante dell’universo

Insieme alla pubblicazione di questo articolo ho deciso di tradurre dall’inglese un’intervista alla regista della serie. Ce ne sono un paio a disposizione ma ho scelto proprio questa perché è stata la fonte principale sulla quale mi sono basato per scriverlo. Se vi interessa non perdetevela.

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Quella di oggi è la storia di un progetto che, come sempre accade per gli anime originali, ha visto luce grazie ai stessi sentimenti che permetteranno alle sue protagoniste di realizzare il proprio sogno: fiducia e perseveranza. Ma ancor prima è la storia della volontà della sua regista di potersi esprimere al meglio, di creare un racconto che trascenda le barriere del medium per il quale è stato concepito; che possa azionare quell’arrugginito meccanismo all’interno delle nostre menti il cui scarso funzionamento ci impediva da tempo di progredire. Quello di oggi è un racconto concreto e fruttuoso che nasce con il solo scopo di cambiarci la vita. Un racconto intimo attraverso il quale la sua regista ha potuto esprimersi al meglio. Questo è A Place Further Than the Universe (d’ora in avanti Yorimori), la materializzazione più intima e genuina del pensiero di Atsuko Ishizuka. E non soltanto del suo pensiero, ma anche del suo personale modo di intendere l’animazione.

Lo stile di Ishizuka prevede una grande attenzione nei confronti del ritmo di narrazione, e l’assenza di un materiale originale a cui dover fare continuamente riferimento le ha permesso di giocare al meglio con i tempi. Ed è proprio in questo punto che l’anime trova una delle sue più grandi qualità. L’eccellente gestione del ritmo narrativo all’interno delle singole puntate permette alla serie di contare con tredici singoli episodi colmi di emozioni e che riescono a colpire nel segno, soprattutto quando supportati dalla brillante direzione e dalle giocose animazioni dello staff. Ma anche dirigendo la nostra attenzione al quadro più ampio non ci metteremo molto ad accorgerci di come semplicemente tutto ha il suo giusto spazio. E già solo questo è abbastanza per salvare una storia che, diciamocelo, parte svantaggiata rispetto alle altre.

L’anime si pone l’obbiettivo di narrare una storia improbabile attraverso delle protagoniste che quasi incarnano i cliché nipponici più comuni. E per questo, tanto la base narrativa quanto la maggior parte dei personaggi che la compongono hanno tutte le carte in tavola per risultare forzati, incapaci di mettere a segno l’obbiettivo di entrare in sintonia con lo spettatore. Eppure ci riescono lo stesso. Ed è proprio questa la magia dello script di Jukki Hanada: l’aver trasformato una storia improbabile in un qualcosa di convincente mediante una coerente e ben studiata contestualizzazione degli elementi che la compongono, che finiscono quindi per risultare parecchio genuini. Situazioni problematiche già ampiamente esplorate altrove come, ad esempio, quelle di Hinata non vengono inserite soltanto con lo scopo di fornire un background strappalacrime ai personaggi, bensì acquistano un significato funzionale alla storia e ai personaggi. condizionano sia gli avvenimenti che il comportamento di questi ultimi.

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Però creare dei personaggi credibili solo per inserirli all’interno di un contesto forzato non avrebbe fatto altro che rovinarli, e lo staff, ben conscio di questo, non si è certo fatto trovare impreparato. Sia le ampie ricerche sulle meccaniche che regolano una reale spedizione in Antartide, svolte attraverso delle interviste a dei veri e propri membri della Antartic Research Expedition, che lo studio delle ambientazioni (dalle più comuni a quelle vaste e desolate dell’Antartide) hanno lo scopo di addolcire l’immersione dello spettatore nella storia – di creare un contesto credibile al quale i personaggi risponderanno in maniera convincente.

Ai background artist viene affidato il difficile compito di creare un mondo affascinante che in questo caso viene costruito attraverso una forte attenzione ai particolari e un’ottima integrazione di questi con la storia. Ambientazioni estremamente comuni acquistano una personalità scenica considerevole perché ricollegabili a degli avvenimenti importanti o perché in grado di stimolare un ricordo ben preciso, e vengono messe in secondo piano soltanto dalla sconfinatezza e maestosità del continente bianco, che lo staff è riuscito a trasporre in tutta la sua bellezza e imprevidibilità grazie ad un meticoloso studio di foto e video di riferimento.

Una volta in grado di dare sfogo alla sua creatività senza troppe restrizioni, Atsuko Ishizuka non poteva che creare una storia che descrive i pg femminili in maniera opposta rispetto al suo ultimo lavoro con No Game No Life. Una storia di quattro forti ragazze determinate a non annegare nel mare di problemi nel quale sono sommerse. Tematiche come l’emancipazione sociale e la mancanza di stimoli occupano uno spazio importante tanto all’interno della serie quanto nelle nostre vite, eppure esse non compaiono per essere descritte in tutte le loro sfaccettature, bensì per essere superate. Sicuramente il viaggio in Antartide si rivelerà un’enorme opportunità di crescere e migliorare, ma a spingerle a salire su quella nave è stata la loro voglia di cambiare. È stato quel fugace pensiero che semina dentro di noi il dubbio di non star facendo abbastanza. E l’obbiettivo della storia, oltre che il motivo per cui tutte le ragazze tranne Shirase non hanno una vera e propria motivazione solida per partecipare a quella specifica spedizione, è proprio quello di farci comprendere come per accendere la scintilla del cambiamento non sia necessario chissà quale irreparabile avvenimento. Ciò che serve è quell’attimo di riflessione davanti allo specchio. Quel pensiero che invade il nostro animo e ci spinge a muoverci, ad evadere dalla prigione della quotidianità.
E tale messaggio, ripeto, non viene certo inserito in modo forzato. Le quattro ragazzine non sono delle marionette che si mettono in moto perché è il loro dovere di protagoniste, ma perché spinte da quel naturale e perfettamente umano sentimento di rivalsa che viene costantemente alimentato dalla voglia di dimostrare agli altri di non essere un fallimento.

Al contempo, quello di Shirase è un viaggio che ci invita a non rassegnarci mai. Per quanto dura e faticosa possa sembra la realtà con la quale ci ritroviamo a dover fare i conti abbiamo il dovere di verificarla con i nostri occhi. E non importa quanto il nostro obbiettivo possa sembrare irraggiungibile agli occhi degli altri, arrendersi significa accettare la nostra debolezza. Il disprezzo e l’invidia non deve diventare una barriera che ci impedisce di continuare, bensì una spinta in più grazie alla quale raggiungere il nostro obbiettivo. Molto probabilmente farlo sarà doloroso e per nulla facile, però è proprio questo il punto. Soltanto rischiando e mettendoci in prima fila siamo in grado di cambiare, di affrontare delle situazioni fondamentali per la nostra crescita che altrimenti non potremmo sperimentare. L’atto di approdare insieme, contemporaneamente, sul suolo dell’Antartide è proprio la riprova di come a contare non è tanto il motivo che ci spinge a muoverci, ma piuttosto il semplice atto di farlo.

Webp.net-compress-image (1)Yorimori è una storia che riesce a compiere il suo dovere in modo estremamente efficace, oltre che piacevole e affascinante. Un piccolo gioiello concepito per ispirare lo spettatore e spingerlo ben oltre l’Antartide: in un posto più distante dell’universo. Le nostre ragazze hanno portato a termine la loro avventura. E noi, cosa stiamo aspettando?

Yorimori è una storia che riesce a compiere il suo dovere in modo estremamente efficace, oltre che piacevole e affascinante. Un piccolo gioiello concepito per ispirare lo spettatore e spingerlo ben oltre l’Antartide: in un posto più distante dell’universo.
Le nostre ragazze hanno portato a termine la loro avventura. E noi, cosa stiamo aspettando?

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