Il tempo di narrazione è il criterio in base al quale decidiamo di dare priorità a un certo avvenimento rispetto ad un altro, e non solo. Scegliere il tempo di narrazione di una storia non implica soltanto decidere l’ordine degli eventi, ma anche determinare quanto spazio essi debbano effettivamente occupare, non solo nella storia in generale, ma soprattutto nel singolo episodio o nella singola pagina. Un evento tanto semplice, come bere dell’acqua, può essere raccontato in un riquadro o in dieci pagine – in due secondi o cinque minuti- , a seconda di quanto esso sia importante ai fini della storia. Uccidere una zanzare può prendere 5 minuti del nostro tempo, oppure un intero episodio di Breaking Bad, giusto Vince? Ed è proprio per questo motivo che il tempo – o ritmo – di narrazione è un elemento CHIAVE nel determinare la godibilità di una storia da parte dello spettatore. Qualsiasi storia, con qualche raddrizzata sui ritmi di narrazione, per quanto brutta possa essere, può diventare godibile.
Allo stesso modo, anche la storia più promettente può miserabilmente fallire se la gestione dei tempi degli eventi che la compongono non è stata azzeccata dall’autore. Ciò è dovuto al fatto che, se gestiti saggiamente, i tempi narrativi di qualsiasi storia possono finire col rendere affascinante ed intrigante anche la scena più stupida e banale. Questo processo, però, non deve avvenire soltanto nel singolo episodio, ma deve essere attuato saggiamente durante tutto l’arco narrativo in modo che alla fine tutto abbia perfettamente senso. Per far sì che funzioni, è necessario aver ben chiaro sin dall’inizio che tipo di storia si vuole creare e che messaggio si vuole trasmettere allo spettatore, solo allora è possibile giocare con i tempi narrativi. Una storia approssimativa non è dinamica, non si può scomporre e ricomporre preservando la sua sensatezza, figuriamoci scombinarla nei tempi e ritmi.
Quando ho detto che ogni storia, per quanto brutta sia, può divenire godibile una volta corretti i tempi e ritmi narrativi non ho certo gridato al miracolo. Non stavo per nulla affermando che basta cambiare la durata delle scene a caso per rendere una storia un capolavoro. Bensì, intendevo che il 99% degli anime brutti sono anime i cui tempi di narrazione sono gestiti male. Intendevo che la gestione dei tempi è un’abilita molto difficile da dominare e, proprio per questo, sono pochi i narratori che la sanno sfruttare, e di conseguenza poche le storie godibili. Intendevo che queste storie brutte, se affidate ad un autore abile nel gestire i ritmi narrativi, diventerebbero quanto meno godibili. L’autore più esperto sa creare una storia che intrattenga ad ogni pagina, è capace di concludere ogni capitolo lasciando un incognita che spinga lo spettatore a proseguire con la lettura. Quella voglia di proseguire non nasce da noi, ma viene seminata dall’autore attraverso la sua capacita di narrazione. Ciò che intendo,è che una storia ben fatta nasce e finisce ogni volta, sia nel quadro generale dell’opera che nelle singole parti, sia nei 13 episodi che nel singolo episodio.
Un anime raccontato magistralmente è un anime in cui nasce una vicenda che si conclude a fine episodio in ogni episodio, ed in cui tutti gli episodi riescono poi a fondersi creando una sola ed unica grande storia volta a trasmettere un solo ed unico grande messaggio. Questo vuol dire fare un uso corretto dei tempi di narrazione: rendere ogni momento della storia interessante, ogni avvenimento importante, sia nel singolo episodio che nel quadro complessivo della serie.
Attenzione: con “si conclude a fine episodio in ogni episodio” non sto incitando all’autoconclusività degli episodi, in quanto in questo caso ogni legame tra un episodio e l’altro viene completamente spezzato, e con essi anche la possibilità di creare una storia complessiva con un messaggio specifico. Questo è esattamente ciò che succede, ad esempio, nella prima stagione di My Hero Academia: ogni momento della stagione è interessante, in ogni episodio (fatta eccezione ovviamente per l’arco finale) nasce un problema che si risolve alla fine dello stesso e che, poi, si aggiunge come tassello del grande puzzle finale. Ogni singolo episodio è una miniera di emozioni e sensazioni sia positive che negative, e conclude perfettamente le vicende nate nello stesso. Ogni singolo avvenimento serve ai personaggi per crescere e per diventare ciò che sono nell’ultimo episodio della prima stagione. Ogni difficoltà insormontabile, nemico imbattibile, desiderio incontrollabile e situazione insopportabile viene mostrata per una ragione e contribuisce sia agli avvenimenti del singolo episodio che alla storia in generale.
Eppure, la linea tra una gestione corretta e incorretta dei tempi di narrazione è molto sottile.
Prendiamo, ad esempio, il caso di Darling in the FranXX. Per la prima decina di episodi la gestione dei ritmi è stata impeccabile: primo episodio perfetto e ottima introduzione ai personaggi, al mondo e alla storia. In ogni episodio nasce un problema che viene risolto alla fine dello stesso e che serve a creare una crescita nei personaggi o un mutamento alla situazione in cui i nostri protagonisti si trovano. Questi episodi, non sono autoconclusivi, ma sono semplicemente ben raccontati. Ben raccontati perché hanno un proprio inizio e una propria fine, e introducono allo stesso tempo l’episodio successivo apportando sempre un cambiamento agli elementi della storia – sia questo nei personaggi o nelle loro relazioni, o nell’ambiente in cui si svolge la storia. Poi, purtroppo, si inizia ad abusare, arrivando all’episodio 19 su 24 seguendo ancora questo schema, dando ancora priorità allo sviluppo dei personaggi e della storia piuttosto che alla preparazione per il finale. A causa di questo errore, ci ritroviamo con gli ultimi 4 episodi che danno una forte impennata verso la fine, apparendo estremamente forzati e fuori luogo. L’errore commesso dallo staff di Darling in the FranXX è stato, appunto, quello di non saper gestire i tempi di narrazione in modo da far sembrare tutto naturale e logico.